La domanda sorge spontanea dopo le recenti amministrative, dalla Capitale alla Sicilia.
Per restare in auge il Movimento 5 Stelle, da partito che voleva correre da solo a tutti i costi – ottenendo negli anni passati risultati anche eccellenti, come la sindacatura di Virginia Raggi e quel 32.68 % delle Politiche –, ora deve appoggiarsi a quel Pd, che proprio nel 2018 ebbe un’emorragia di voti, fermandosi al 22,86 %?
Abbiamo visto tutti il disastro alle ultime amministrative di Roma, con la Raggi in evidente agitazione, furiosa sentendosi praticamente lasciata da sola, mentre il leader del Movimento, Giuseppe Conte, insieme al ministro Luigi Di Maio, andava a raccogliere la gloria e e gli onori della vittoria a Napoli, con l’elezione al primo turno di Gaetano Manfredi, appunto appoggiato da M5S e Pd. Ma non solo: a sostenere Manfredi c’era quasi tutta la galassia del centrosinistra, così da permettergli l’exploit senza il ballottaggio.
Il 10 ottobre anche in Sicilia l’asse giallo-rossa è andata abbastanza bene, soprattutto a Caltagirone con la vittoria di Fabio Roccuzzo, attestandosi al 53% e sbaragliando un compatto centrodestra.
Una tendenza che da subito ha fatto parlare del futuro: “Caltagirone è il modello da seguire in Sicilia”, ha dichiarato a caldo il segretario regionale del Pd, Antony Barbagallo.
A fargli da eco il sottosegretario del M5s alle Infrastrutture, Giancarlo Cancelleri: “Questo dimostra la grande capacità di fare sinergia sui territori e rafforzare, passo dopo passo, l’asse innanzitutto con il Pd e con altre forze di sinistra e civiche”.
Caltagirone è l’avviso di sfratto al Governo Musumeci – ha continuato Cancelleri – perché dimostra che la coalizione del M5s-Pd e forze di sinistra battono il centro destra anche se unito”.
Insomma, si son resi conto che da soli non si va da nessuna parte Pd e M5S, con la rimonta negli ultimi tempi prima della Lega e, poi, di Fratelli d’Italia, anche nell’Isola. Insieme, invece, possono risultare reciprocamente più credibili e convincenti.
Così convincenti che si stanno convincendo da soli che l’asse giallorosso potrebbe riprendersi Palazzo d’Orléans.
Intanto nell’area di centrodestra il presidente Musumeci si dice pronto a ricandidarsi per un secondo mandato; Salvini vuole un candidato della Lega; il sindaco di Messina, De Luca, ha iniziato la sua cavalcata verso Palermo.
Un centrodestro che, dunque, almeno per adesso, si mostra spaccato. Ma è ancora troppo presto per dirlo: ognuno sta facendo il suo gioco nella speranza di rimanere l’unico in corsa, sostenuto da tutti i partiti della coalizione.
E Pd – M5S e gli altri partiti di sinistra che faranno? Sarà un uomo o donna del Partito democratico o un rappresentante del Movimento a mettere d’accordo tutti? Certo, di nomi potrebbero essercene diversi, si del Pd che del M5S.
Tutto questo per i Cinquestelle, se da un lato porta ad un risultato positivo alle urne, dall’altro può rivelarsi un boomerang all’interno del Movimento stesso.
Infatti, accordi Pd-M5S, portano ad un progressivo snaturamento di ciò che il Movimento era, tralasciando uno dei suoi assiomi, ovvero il non allearsi mai con nessuno.
Per tale motivo il M5S si è già guadagnato il brutto appellativo di “stampella del Pd”.
Insomma, dopo una rincorsa, il MS5 ha rallentato, andando sempre più in basso nei sondaggi – vedi le scelte non condivise, prima di allearsi con la Lega nel Governo gialloverde e poi di rinunciare a Conte per far posto a Draghi -.
E, come un qualsiasi altro partito con una diminuita popolarità, anche i Cinquestelle si sono piegati alle regole degli apparentamenti.
Questo fa del M5S un partito politico più simile a tutti gli altri e, di certo, non più il Movimento originario di Grillo e Casaleggio (padre!).
Ma, fino, ad ora questa nuova alleanza – se così sarà – tra Pd e M5S sembra l’unica via capace a sbaragliare il centrodestra.